P. GIOVANNI BATTISTA
MANZELLA cm
(1855-1937)
di P. Pietro Pigozzi CM
Padre Giovanni Battista Manzella ha incarnato, in tutto il secolo
scorso, un altissimo ideale sacerdotale e missionario, cui si ispirarono molti
sacerdoti e religiosi. Infatti, la biografia che ne scrisse il Signor A. Sategna
fu particolarmente diffusa anche nei Seminari italiani degli anni cinquanta,
dove veniva letta comunitariamente soprattutto in occasione di ritiri spirituali.
Di questo grandioso "ideale sacerdotale" incarnato da lui si fece
interprete lo stesso Giovanni Paolo II con le parole rivolte ai vescovi sardi
nella prima visita 'ad limina' del 1981: " Non posso non ricordare l'opera
assidua ed indimenticabile del Signor Manzella, l'apostolo della Sardegna, che
catechizzò per circa quarant'anni, percorrendola in lungo e in largo:
egli, prima come Direttore spirituale nel Seminario di Sassari, e poi nelle
sue 'missioni', ebbe sempre come ideale appassionato l'amore e l'aiuto al clero,
sostenendolo con la sua fede integerrima e con la sua opera infaticabile. E
proprio l'intera esistenza del Signor Manzella dimostra quanto è necessaria
la sintonia tra clero e religiosi nelle varie attività parrocchiali,
diocesane e regionali e come è facile realizzarla, se si vuole, secondo
le direttive del documento 'Mutuae relationes' .
Vocazione sacerdotale e vincenziana
Nacque il 21 gennaio 1855 in Soncino, caratteristico paese medievale della provincia
di Cremona, e il giorno seguente fu portato al fonte battesimale nella chiesa
parrocchiale di S. Giacomo, ricevendo i nomi di Bartolomeo Giovanni Battista.
Terminati gli studi tecnici, si unì al lavoro di materassaio del padre
Carlo, prima in paese e, quindi, a Castello Brianza, sopra Lecco, dove si trasferì
con i genitori nel 1875. Intanto il fratello minore Ezechiele era entrato nel
Seminario diocesano di Cremona. Nel novembre 1880 il nostro Giovanni Battista
trovò lavoro in questa città come commesso in un negozio di ferramenta.
Quì imparò a conoscere San Vincenzo de' Paoli soprattutto nell'esperienza
caritativa della Conferenza Maschile di San Vincenzo.
Quando Ezechiele divenne sacerdote, finalmente anche lui, ormai ventinovenne,
riuscì a entrare nell'Istituto Villoresi di Monza, dove venivano accolte
le vocazioni adulte. Vi frequentò gli studi per tre anni. Ma il suo direttore
spirituale lo indirizzò alla Congregazione della Missione: "Tu sei
fatto per l'obbedienza; tu ti farai berettante" , gli disse. E fu profetico.
Il 2 novembre 1887 si presentò alla Casa della Missione di Torino e il
21 novembre fece la vestizione vincenziana nel Noviziato di Chieri. Qui si lasciò
letteralmente plasmare dalle Regole di San Vincenzo, imperniate, quanto a formazione
spirituale, sull'ascesi dell'umiltà, semplicità, mansuetudine,
mortificazione e zelo per la salvezza delle anime. Nei sei anni di formazione
al sacerdozio, progredì talmente in queste virtù, che, in seguito,
tutta la sua vita e apostolato ne sarebbero rimasti caratterizzati profondamente,
diventando una viva immagine del santo fondatore. In particolare, l'umiltà
e la mortificazione l'avrebbero portato, fino a saper sopportare serenamente
umiliazioni e anche calunnie, sull'esempio e alla scuola di San Vincenzo, scegliendo
eroicamente di mai difendersi presso alcun superiore.
Ricevette l'ordinazione sacerdotale nella cappella del Seminario Arcivescovile
di Torino il 25 febbraio 1893, ormai a 38 anni.
Macerato dall'obbedienza
I primi sette anni di sacerdozio lo videro impegnato quasi totalmente nella
formazione dei giovani, lasciandosi macerare dall'obbedienza religiosa nei molteplici
trasferimenti. Per otto mesi del 1893 fu Direttore della Scuola Apostolica di
Scarnafigi (CN), quindi a Chieri (1893-1898) come Direttore dei Novizi. A Como
(1898-1899) gli fu affidata la predicazione delle missioni al popolo; ma dopo
due anni circa fu nuovamente trasferito a Casale Monferrato (1899-1900), direttore
disciplinare ed economo del Seminario Diocesano. Qui i seminaristi acquisirono
la consapevolezza di trovarsi dinanzi a un missionario santo.
Nel novembre 1900 fu trasferito in Sardegna, al Seminario Tridentino di Sassari,
in qualità di Direttore Spirituale. Anche in questa circostanza il giudizio
dei superiori maggiori esprimeva una qualche convinzione di santità della
sua vita. Infatti, il Visitatore della Missione, P. Emilio Parodi, scrisse all'Arcivescovo
Mons. Marongiu Delrio: "Questa volta le mando come Direttore Spirituale
del Seminario il Signor Manzella, un santo missionario... non avrò mai
a pentirmi di averlo mandato in Sardegna".
Nel 1904 intraprese anche la predicazione delle Missioni al popolo e l'anno
seguente, ormai cinquantenne, vi fu destinato a tempo pieno insieme col Signor
Antonio Valentino (1869-1946).
Nella predicazione al popolo
Le prime missioni gli avevano fatto capire il bisogno della predicazione nelle
parrocchie. "Il popolo chiede il pane, ma non v'è chi glielo spezzi!",
fu il suo commento amaro alla missione di Pattada (SS) del 1904, quando costatò
l'ignoranza religiosa del popolo e il poco zelo dei sacerdoti nella predicazione.
E intraprese con entusiasmo e dedizione questo ministero.
Concluso anche il superiorato della Casa della Missione di Sassari (1906-1912),
riprese ancora l'attività della "predicazione a tempo pieno"
ininterrottamente fino al 1926, quando fu nuovamente destinato al Seminario
di Sassari, sempre in qualità di Direttore Spirituale.
Furono, questi, i 13 anni di un apostolato particolarmente intenso e proficuo,
che lo fecero conoscere in tutti i ceti sociali della Sardegna: da Sassari alla
Nurra, alla Gallura, al Logudoro, al Goceano, al Meilogu, fino a Bosa e Oristano,
a Nuoro, alla Barbagia, e con frequenti puntate fino all'Iglesiente, in Ogliastra,
al Campidano e a Cagliari.
E' preziosa, in proposito, la testimonianza del Prof. Remo Branca: "Manzella
lo incontravo dappertutto: ogni incontro una lezione definitiva. Chi come me
ha visitato la Sardegna in ogni suo più remoto angolo, sa che l'Isola
fu veramente conosciuta e visitata da tre uomini, i quali impiegarono dai quindici
ai vent'anni per averne una visione precisa anche nei particolari. Il La Marmora,
che studiandola sotto l'aspetto fisico e militare, ne diede immortale notizia
in due opere monumentali: nel Viaggio in Sardegna e nell'Itinerario; il Bertarelli,
che la frugò per 17 anni consecutivi per scriverne la nota Guida del
Touring; ed infine Manzella che vi camminò sopra per 37 anni consecutivi.
A parte il maggior numero di passi e di anni, dobbiamo ora proclamare, di fronte
alla storia dell'Isola, che la Guida più sicura, per noi poveri pellegrini,
l'ha scritta Lui, scrivendo di meno e camminando di più".
Apostolo infaticabile
"Andremo a convertire le genti!" era stato il primo sogno della sua
giovinezza già nel negozio di ferramenta a Cremona. La formazione vincenziana
del Noviziato, poi, l'avevano orientato alla "evangelizzazione dei poveri,
specialmente delle campagne", dove maggiormente San Vincenzo aveva esperimentato
l'ignoranza religiosa e l'abbandono da parte del clero, che invece si riversava
numeroso nelle città. Aveva, infine, fatto suo l'invito accorato del
suo fondatore: "Diamoci risolutamente a Dio, lavoriamo, lavoriamo, andiamo
ad assistere i poveri campagnoli, che ci aspettano
".
Degno figlio di San Vincenzo, era consapevole che "chi dice missionario,
dice uomo chiamato da Dio a salvare le anime, perché il nostro fine è
di occuparci della loro salvezza, ad esempio di Nostro Signore Gesù Cristo,
il solo vero Redentore
e Salvatore".
E Padre Manzella ne fece il suo programma sacerdotale. Così fu capace
di spendersi, soprattutto nel ministero delle confessioni, perno delle missioni
popolari, anche 20 ore su 24 con estrema disponibilità. Di giorno aveva
inventato, nei tempi liberi dalla predicazione, di fare la "pesca a domicilio"
in cerca delle "pecore smarrite" ammalate o anziane. La sera tardi,
poi, era dedicata alle confessioni degli uomini, confessando anche fino alle
undici e a mezzanotte. Per questo decideva, tante volte, che per quattro ore
non meritava neppure andare a letto; e preferiva riposare, in spirito penitenziale
e per il buon esito della missione, sul seggiolone o sulla sedia dinanzi al
tavolino. In missione a Berchidda, una notte crollò letteralmente in
un sonno profondo nel confessionale, che non si svegliò neppure quando
fu portato dagli uomini sulla sedia fino in camera e lasciato lì in mezzo
alla stanza.
Ma caratteristica delle sue missioni divenne anche la famosa trombetta, mutuata
dal banditore che girava in tutto l'abitato per dare gli avvisi importanti.
Fu detto "il trombettiere di Cristo" perché lo rese familiare
ai bambini nei paesi, ma anche negli stazzi e ovili delle campagne sarde. Ancora
oggi viene ricordato così dagli anziani, che lo incontrarono negli anni
trenta, lui ormai sulla soglia degli ottanta:
"Ogni giorno Padre Manzella usciva in giro per il paese suonando una trombetta.
Noi bambini allora uscivamo di casa e andavamo incontro a lui, ci attaccavamo
alla lunga sottana e, facendo il trenino, ci faceva girare tutto il paese. Arrivati
in chiesa, siccome non c'erano banchi, ci faceva sedere per terra. Lui ci diceva:
'Bambini, fate i bravi che il Signore vi guarda, vi vuol bene e vi protegge!'.
E così iniziava a farci pregare e ci faceva il catechismo".
Nei suoi scritti troviamo alcuni tratti significativi di questa spiritualità
dell'apostolato.
- "In questi giorni, come in altri tempi, mi venne un pensiero che mi pare
venga da Dio. Io dico che Gesù mi lascia nell'aridità, però
opera lo stesso in me in altro modo. Io mi sento tanto amore per salvare le
anime.
Lavoro da disperato, e non lo faccio né per farmi vedere, né per
lode. Ma perché so che piace a Gesù. Mi vergogno di dirlo, ma
molti miei confratelli non si sentono di sacrificarsi tanto. Chi mi dà
tanta buona volontà e tanto sacrificio? Mi pare sia quel Gesù
che mi nega un po' di fervore.
In questi giorni ho confessato fino a capirne più nulla. Soltanto quando
la testa non si prestava più, soltanto allora seppi dire di no a chi
mi cercava.
Queste sono le opere di Gesù. Questo pensiero mi ha consolato. Ne ringrazio
di cuore il buon Gesù. Faccia come vuole di me".
Evangelizzare in parole e opere
Altra sua caratteristica fu lo stile dell'apostolato. In un tempo fortemente
segnato dal socialismo anticlericale, seppe realizzare in pieno il principio
vincenziano dell' "evangelizzare in parole e in opere". Così
le missioni popolari manzelliane, finalizzate soprattutto ai sacramenti della
Confessione e Comunione generale, si concludevano per lo più anche con
la fondazione delle Dame della Carità e delle Conferenze di San Vincenzo,
per poi proseguire con altre fondazioni: Asili Infantili, Orfanotrofi, o Associazioni
particolari, come le Pietadine per combattere il funesto lutto sardo, le Società
Cattoliche Operaie da contrapporre alle omonime di ispirazione socialista, l'Associazione
della Dottrina Cristiana, ecc.
Soprattutto le numerosissime Confraternite della Carità, maschili e femminili,
diedero alla Sardegna il primato nazionale di impegno caritativo nel 1923 e
nel 1924. Come collegamento formativo per gli oltre 250 Gruppi di Dame della
Carità, dal 1923 e fino al 1935, istituì il bollettino mensile
"La Carità".
Anche in Sassari, numerose istituzioni assistenziali sono direttamente fondate
oppure ispirate da lui: il Rifugio Gesù Bambino (1903), la Casa Divina
Provvidenza (1910), l'Istituto dei Sordomuti (1911) e, nell'anzianità,
l'Istituto dei Ciechi (1934). Nel Centro e Nord della Sardegna si rifanno a
lui l'Orfanotrofio maschile di Bonorva per i figli dei combattenti (1915-1918),
gli Orfanotrofi di Sorso (1918), di Tempio (1921) e di Olbia (1923), i Ricoveri
per anziani di Ghilarza (1923), di Oschiri (1923), di Orotelli (1925), ecc.
Per questo fu giustamente considerato come il San Vincenzo della Sardegna per
la sua grandiosa attività caritativa e seppe conquistare il cuore di
tutti, credenti, massoni e socialisti.. Vero padre dei poveri, non sapeva mai
negare loro l'elemosina, arrivando persino a donare loro le proprie scarpe!
Amico dei sacerdoti
Guida umile e sicura dei sacerdoti, sapeva incantarli ed entusiasmarli nella
predicazione nei Ritiri spirituali, richiesto un po' in tutte le diocesi, da
Sassari a Iglesias e Cagliari. E questa sia ai cinquanta che agli ottant'anni.
"La sua fede risplendeva in tutta la sua persona, da tutto il suo comportamento.
La sua figura ci portava a pensare a Dio. Lo ricordiamo tutti quando predicava:
quanta unzione, quale fervore! Soprattutto i suoi occhi, i suoi begli occhi
che splendevano di cielo, facevano intravvedere il tesoro di fede che albergava
nella sua anima".
E Mons. Tedde nel 1949 aggiungeva: "Se talora egli aveva espressioni di
estatiche tenerezze verso il Signore e verso la Vergine Immacolata, le circostanze
della sua vita ci dicono che quelle espressioni, quei 'momenti di paradiso'
riflettevano il termine di un tormento interiore, di una grossa battaglia intima
per la vittoria completa e sincera sul proprio carattere con i sistemi ed i
mezzi classici della più pura ascetica: preghiera assidua (passava lunghe
notti a colloquio con Gesù Eucaristia) ed austera penitenza, che piegavano
il suo carattere ad una modestia, semplicità, umiltà, obbedienza,
e carità esemplare".
Vero amico dei sacerdoti, accettava volentieri qualsiasi predicazione nelle
parrocchie, per le feste patronali oppure per Tridui di San Vincenzo, come animazione
dei Gruppi delle Dame sparse ovunque nell'Isola. La sua vita ci appare sempre
in movimento, sempre tra la gente, di paese in paese, capace di adattarsi a
ogni ceto di persone. Così lo ricordava ancora Mons. Fraghì nel
1948:
"La sua missione non aveva limiti: in chiesa, nelle piazze, in treno o
in carrozza, a cavallo o a piedi, dovunque sentiva la necessità di dare
i tesori della fede a chi ne aveva bisogno. E si serviva di tutti i mezzi: della
scienza teologica, che sapeva sminuzzare in modo mirabile; dell'astronomia,
per cui sentiva grande passione; dei fatti di cronaca, che sapeva stralciare
appositamente dai giornali; delle barzellette popolari che sapeva raccontare
in modo gustoso, dei cartelloni figurati, dove c'era spiegato tutto il catechismo;
e perfino dei giochi di prestigio, nei quali era diventato maestro: tutto serviva
al suo cuore di apostolo per diffondere meglio la dottrina di Cristo".
Nei ritiri sovente si rifaceva alla centralità dell'Eucarestia nella
vita sacerdotale:
"Sacerdoti! Gesù è nelle nostre mani. Io Sacerdote gli do
la vita, lo chiudo nel tabernacolo. Egli non uscirà se non quando vorrà
il Sacerdote. Il tabernacolo è sempre chiuso, in certi paesi anche la
chiesa è sempre chiusa. Cosa sono le chiese? Le carceri di N.S.Gesù
Cristo. Il Sacerdote è il custode. Egli lo fabbrica, lo custodisce, lo
dispensa
".
In un altro ritiro presbiterale concludeva così la meditazione: "Tornando
alle vostre case, andate dal Gesù del vostro paese, prima di entrare
in casa. Vi inginocchiate davanti a Lui e ditegli: 'Gesù, vi consolerò
per l'avvenire. Non vi sarò più di pena ma di conforto. Vi porterò
tante anime. Soddisferò il vostro infinito amore col darvi più
anime che potrò
'. Cantiamo pure l'inno di ringraziamento al nostro
Dio, al nostro Gesù, al nostro Amico, al nostro Fratello maggiore
".
Maestro di vita spirituale
Un aspetto tipico del suo apostolato fu anche la direzione spirituale di anime
privilegiate, che si consacrarono a Dio in Istituti religiosi o nella vita secolare.
Basti accennare alle Serve di Dio Edvige Carboni, Leontina Sotgiu e Madre Angela
Marongiu. Dovunque passava, suscitava un particolare fascino per la vita spirituale
intensa, che sovente sfociava nella vita consacrata. Era un autentico suscitatore
di vocazioni. Quante suore e sacerdoti devono a lui la loro vocazione!
Le lettere, che indirizzava loro, esprimono tanti aspetti, tuttora poco conosciuti,
della sua ricca spiritualità.
A Leontina scriveva: "Gesù dà ad ogni santo un carattere
singolare e sarà la fisionomia che ci distinguerà nei cieli. Ricevi
ciò che Gesù ti dà con rendimento di grazie. Lascia fare
a Lui
".
E dalla missione di Castelsardo le scriveva nel gennaio 1914: "Lavoriamo,
Figlia carissima, alla santificazione delle anime. Gesù lo vuole. Se
una tua parola fa fede, perché non dirla? Se una tua lettera può
edificare perché non scriverla? Non sarai tu contenta se in cielo troverai
un numero maggiore di anime che cantano le glorie del Buon Dio? Il timore della
superbia bisogna lasciarlo da una parte. Io lascerei di fare le Missioni, e
nelle missioni di fare tutto quel che faccio. Alla buon'ora
Ne parleremo
a Voce. Angela ha pure la sua missione. Prega che Dio compia presto i suoi disegni.
Intanto fa già molto bene colle sue preghiere e private esortazioni.
Prega per questa missione
Suonan le campane; tutto è finito anche
per oggi (ore 5 mattina), attacchiamo il carro, devo andare in Gesù e
Maria".
Grazie a questo epistolario, possiamo conoscere anche alcuni aspetti tipici
della sua spiritualità mariana. Nel 1913, dalla missione di Perfugas
ancora a Leontina faceva questa confidenza: "Quali sono i titoli che do
io alla Santissima, Carissima speciosissima, buonissima Maria? E chi lo sa.
Mi vuoi far fare la confessione generale? La faccio. A Leontina nulla si nega.
Senti. Io penso alla Beata Vergine che, col suo Bambino in braccio, da Betlemme
va a Gerusalemme. Io in quel mistero la contemplo buona, buona buona mi par
di vederla. Celebrando la S. Messa, innalzo l'Ostia, la abbasso e la depongo
sul corporale adagio adagio, come se fosse la Beata Vergine Maria che lo depone
nella culla. E dico: 'Mio Gesù, le mie mani sono immonde. Vi depongo
sull'altare, come la Vostra carissima speciosissima amabilissima Madre vi deponeva
nella culla'. Quando copro il Calice già consacrato, lo copro coll'amore
con cui la bella buonissima amabilissima Maria copriva il Suo amatissimo Figlio.
Io penso talvolta che se la Beata Vergine col suo Bambino fossero in una casa
e minacciati, io starei fuori al vento alla pioggia a patire sonno e disagi
mortali per tutta l'eternità per difendere la cara Immacolata Mamma del
mio Signore. Dissi il falso? Mi pare di no".
Questo aspetto mariano della sua vita ha diversi ulteriori arricchimenti, che
però ora non è il caso di approfondire.
Nel 1927 coronò ancora un suo antico sogno, radunando le prime Suore
del Getsemani attorno alla confondatrice Madre Angela Marongiu (1854-1936).
Egli pensò a questa nuova istituzione religiosa soprattutto come risposta
al problema di tante giovani che, per coronare il loro ideale di vita consacrata,
si recavano nel continente, dove però, in una cultura e ambiente diverso,
non si sentivano più a loro agio e rientravano deluse nei loro paesi.
Così le diede, in sintonia con la spiritualità di Madre Angela,
una dupplice fisionomia: di attività apostolica e di vita contemplativa;
un apostolato soprattutto fra le ragazze povere dei paesi, da inserire con dignità
nel lavoro professionale, ma anche una spiritualità incentrata sull'Eucarestia
e sulla Passione del Signore.
La morte di un santo
Nel 1934 ebbe ancora il trasferimento dal Seminario Turritano alla Casa della
Missione di Viale Italia, nella segreta speranza di potersi dedicare maggiormente
alla cura delle sue Suore; tuttavia veniva richiesto ancora in continuazione
per la predicazione, sia al popolo che al clero.
Non potendo più contare sulla fermezza delle gambe, accettò volentieri
di poter circolare col famoso 'calessino' trainato dall'asinello, sia in città
che nei paesi limitrofi. Ed è questa l'ultima sua immagine scolpita nella
memoria di tanti, tuttora viventi, che lo ricordano con venerazione.
La malattia che lo portò alla morte fu di soli dieci giorni: una emorragia
cerebrale lo colse nel pieno della predicazione, togliendoli completamente la
vista: non a Sassari, ma ad Arzachena, dov'era stato inviato per un triduo di
preparazione alla visita pastorale.
Furono i giorni dell'apoteosi manzelliana: numerosissime le visite di cortesia,
soprattutto dei poveri, tanto da doverlo sistemare nel parlatorio della casa.
Tutti volevano salutarlo e ricevere da lui un ultimo messaggio: sacerdoti, suore,
laici di ogni estrazione. "Sono l'uomo più felice del mondo!"
fu l'ultima definizione che egli diede di se stesso, in quei giorni, rispondendo
a un prete di Ozieri, venuto per fargli visita.
Morì il sabato 23 ottobre 1937, alle quattro del mattino, attorniato
dai confratelli e dalle suore che lo avevano vegliato nell'agonia della notte.
Per la popolazione fu normale commentare che era morto "santo Manzella".
Tutti, infatti, lo additavano così da anni, quando lo incontravano per
le vie di Sassari e gli chiedevano una benedizione per il proprio bambino o
ammalato.
Il plebiscito di stima e venerazione ebbe come momento culminante proprio la
celebrazione solenne dei suoi funerali nella cattedrale di Sassari, il 24 ottobre
1937. In quella circostanza l'arcivescovo Mons. Arcangelo Mazzotti non poté
fare a meno di eprimere pubblicamente quella che era già opinione generale
della popolazione sarda, che lo aveva incontrato e stimato: "Senza affrettare
od anticipare il giudizio della Santa Chiesa, noi tuttavia possiamo affermare
che il Signor Manzella é un Santo".
La salma, fin dal 1941, venne traslata nella cripta della chiesa del SS.mo Sacramento,
presso la Casa Madre delle Suore del Getsemani. E questa chiesa, voluta da lui
e oggi in prossimità degli ospedali sassaresi, da sempre è meta
continua di pellegrinaggio. In particolare, sono gli ammalati che vi si recano
per raccomandarsi a lui prima del ricovero ospedaliero, ritornandovi, poi, a
ringraziare della salute riacquistata.
La sua vita e il suo sacerdozio sono semplicemente stupendi per chi ha potuto
in qualche modo conoscerlo. Ne è testimone ancora lo stesso Mons. A.
Mazzotti, che nella commemorazione del 1947 usava queste espressioni: "Oggi,
a dieci anni di distanza, la stima, l'affetto, la convinzione della santità
del vecchio missionario è tutt'altro che sminuita. Il pellegrinaggio
alla sua tomba è ininterrotto, la fiducia nella di lui intercessione
ha un crescendo impressionante. Ieri la conferenza al salone dello Sciuti è
stata un grande successo: la folla era tanta da non poter essere contenuta nella
sala, e molti dovettero con dispiacere rinunziare a sentire il discorso commemorativo.
Stamattina questa cattedrale riunisce tanta folla da ricordare quella che numerosissima
intervenne ai funerali. Qual è il segreto di questa popolarità,
di questa attrazione esercitata dalla figura del Signor Manzella? ... E' certamente
la santità della sua vita".
Ogni anno, nella data di morte, si ricorda la sua figura sacerdotale e missionaria
con una celebrazione particolare presieduta dal vescovo, alla quale la popolazione
sassarese e dei paesi vicini partecipa sempre con una particolare frequenza
e devozione, che oggi, dopo tanti decenni, diventa davvero impressionante e
profetica. E' il segno visibile dell'attesa fiduciosa del popolo sardo per la
glorificazione di questo Servo di Dio, fattosi "da lombardo di nascita,
sardo di cuore".